INTERATTIVITÀ E TRANSMEDIA #2
LE STORIE INTERATTIVE SONO NECESSARIAMENTE PRIVE DI EMOZIONI?
Una delle critiche che vengono mosse al genere interattivo è che spesso ha la tendenza a essere privo di emozioni, che l’anestesia interattiva non veicola la carica emotiva che possono avere un film o un libro.
Dobbiamo ammettere che l’interattività non aiuta, che gli ostacoli sul cammino del cantastorie interattivo sono svariati, ma non credo che l’interattività sia in sé priva di emozioni.
In realtà questa apre anche a un nuovo campo di possibilità che può guidare il pubblico in uno stato emotivo determinato. E la posta in gioco è alta.
Dopo aver saturato Internet di informazioni relativamente blande, alcuni media e brand non si affermano né distinguono più se non attraverso l’emozione.
Non potete non aver notato i titoli “putaclicks”, buzzfeed e che richiamano l’attenzione: “questo bambino tre mesi ha cambiato il mondo! Non indovinerete mai come prima di aver cliccato qui!”
L’emozione è diventata un valore di scambio fondamentale nella nostra economia dell’attenzione. E molto spesso è fondamentale poter provocare una reazione del cuore prima di trasformare lo spirito.
EMOZIONI E STORIE
Prima di studiare le specifiche dell’interattività sarà utile accennare velocemente a come una storia può incapsulare delle emozioni, o, meglio, come fa una storia a costruire delle emozioni.
In termini narratologici c’è uno schema che vediamo costantemente e che e sembra più o meno invariato, nonostante le lievi modifiche che tutti vogliono apportare. Si tratta della struttura tipo di un racconto, che permette di visualizzare le grandi svolte: un inizio, uno svolgimento e una fine, cosparsi di crisi che tengono il pubblico sotto tensione fino al climax, il gran finale che porta alla risoluzione del dramma.
Le accentuazioni della curva sono i momenti di “shock emotivo”. Notiamo come questi momenti siano costruiti lentamente ma inesorabilmente. E’ particolarmente difficile provocare emozioni complesse nei primi minuti di un film, un libro o di un altro testo. Semplicemente perché il pubblico non è pronto e non ha ancora scavalcato il confine della sospensione dell’incredulità.
Questo fenomeno mentale ci permette – in quanto spettatori, lettori o utilizzatori – di convincerci che il mondo funzionale che ci si presenta diventi la nostra realtà- una realtà che fa si volontariamente propria per il tempo di un’esperienza, per meglio sentirne le implicazioni.
Fino a che la creazione di questo universo narrativo non è terminata – e fino a che il pubblico non ha compreso e accettato l’universo narrativo messo in scena – le emozioni hanno una circolazione vicina allo zero.
Questo non è un problema per un contenuto lineare, fiducioso che man mano verrà trasportato nello stato emotivo desiderato.
Ma quando si tratta di contenuti interattivi – in cui spesso si chiede al pubblico un’empatia già nei primi minuti, per permettergli di fare quasi subito delle scelte, come la scelta di seguire un personaggio o un altro … – questo è davvero un il problema. Perché è improbabile che sia sufficiente investire nell’universo proposto per poter prendere decisioni sicure e consapevoli. La prima scelta, che tuttavia determinare talvolta il resto dell’esperimento vengono poi fatto in una forma di astrazione che non sarà mai davvero soddisfacente.
Le prime scelte, che a volte determinano tutto il resto dell’esperienza, vengono allora realizzate in una forma d’astrazione che non sarà mai davvero soddisfacente.
Prendiamo per esempio il webdocumentario Inside The Haiti Hearthquake, in cui mentre si carica la pagina si chiede di scegliere tra tre personaggi: la scelta è completamente casuale.
Non sai che cosa si nasconde nelle storie dei vari personaggi né quali siano i loro problemi personali. Così si parte per una delle tre ramificazioni sperando di avere fortuna.
La messa in scena dell’universo del progetto meritava di essere resa più densa per motivare per questa scelta fondamentale e decisiva per il resto dell’esperienza.
Perché questa ricerca della carica emozionale?
Abbiamo appena visto che un’emozione è soprattutto una progressione verso un picco narrativo orchestrata con maestria. Il pubblico si sentirà mai sotto controllo, ma accetta di sottomettersi al potere evocativo di una storia e di fidarsi per portare a casa sentimenti variegati.
Dal punto di vista del creatore, provocare un’emozione è un processo complesso – costruito sulla base di concetti particolarmente fluttuanti come empatia e di immersione – e allora perché impegnarsi in una simile impresa?
Semplicemente in ragione dell’intuizione senza tempo che l’engagement attraverso l’emozione consente una migliore trasmissione del messaggio di fondo. Un’intuizione convalidata da un certo numero di osservazioni scientifiche, come osserva Peter Guber Dillo nel suo libro “Tell to Win”.
Guber afferma che il pubblico accetta di entrare in un universo narrativo perché lo considera come un regalo, senza percepire che nei fatti la storia non è che uno strumento al servizio delle intenzioni del suo narratore. Un racconto che diventa dunque un cavallo di troia mentale concepito per penetrare la cittadina dello spirito umano.
L’INTERATTIVITÀ PUÒ ESSERE UN FRENO ALLE EMOZIONI
La domanda deve essere posta: dare una scelta al pubblico attraverso la narrazione interattiva sacrifica la possibilità di trasmettere un’emozione? Secondo me l’alchimia tra tecnologia e sentimenti è in effetti più complessa da ottenere rispetto a una narrazione lineare.
E questo per tre ragioni intrinseche alla nozione stessa di interattività – quindi relativamente inevitabili – ma anche per altre ragioni che rivelano prima di tutto delle scelte degli autori e dei limiti tecnologici – che si potrenno più facilmente superare.
Le barriere emozionali inerenti l’interattività
Io penso che ci siano tre punti di frizione relativamente inevitabili tra il meccanismo dell’interattività e ciò che serve a provocare emozioni.
Prima di tutto bisogna notare che la maggior parte delle scelte a cui è sottoposto lo spettatore necessitano la conservazione della razionalità, di una forma di concentrazione, quando un sentimento complesso presuppone l’abbandono dello spirito ai capricci della storia in corso.
In secondo luogo un’esperienza interattiva implica la padronanza di un’interfaccia – con le sue complicazioni e i suoi potenziali problemi di ergonomia. Siamo davvero disposti a vivere un’emozione quando stiamo cercando di capire come funziona un webdocumentario?
Infine, e questo punto non si applicherà a tutti, è davvero naturale per il pubblico fare consciamente delle scelte che lo conducono a provare delle emozioni negative come la tristezza o lo spaesamento?
Non c’è una tendenza naturale a fare le scelte meno dolorose se ci si offre questa possibilità?
L’obiettivo qui non è quello di rispondere a queste domande o dare a queste lacune dei pallinativi “chiavi in mano”. Ogni progetto, ogni interactive designer, dovrà trovare le proprie soluzioni a questi problemi o assumere questi limiti come il “prezzo da pagare” per aprirsi altre possibilità offerte dall’interattività.
Gli errori e i limiti alla creazione d’emozioni attraverso l’interattività
Se il passaggio precedente potrebbe sembrare fatalista, questo spiegherà come si possono superare i freni all’emozione dovuti dalle pratiche e dai limiti tecnologici del racconto interattivo.
L’ostacolo più evidente all’emozione è l’interattività che cade in un cattivo momento.
Prima abbiamo accennato al caso in cui la scelta venga proposta prima che l’utilizzatore si sia immerso nell’universo della storia.
Ma possiamo anche immaginare che un’interazione richiesta subito prima del climax o al momento dello scioglimento possa ugualmente mettersi di traverso all’impatto emozionale della storia…
Questo problema del momento giusto della scelta si pone in molte opere, come per esempio in A Short History of the Highrise.
In questo documentario interattivo, si richiede una scelta ogni venti secondi circa e le digressioni sono particolarmente lunghe da seguire.
In queste condizioni quali sono le possibilità di far emergere in noi una qualsiasi carica emozionale? La razionalità necessaria a prendere una decisione ripetuta ostacola chiaramente lo sviluppo progressivo di un’emozione complessa.
Oltre a questi problemi di timing abbiamo anche tutta una serie di problemi tecnici, come bugs, tempi di caricamento troppo lunghi e interfacce mal progettate. Questi impediscono all’utilizzatore di vivere adeguatamente il corso dell’esperienza proposta e prevenire a qualsiasi tipo di emozione.
Ma bisogna anche notare che i creatori interattivi soffrono di alcuni limiti tecnologici di cui non sono responsabili. Così il livello d’astrazione tecnica richiesto dai nostri apparecchi e da altre interfacce – per alcuni utilizzatori – è difficilmente compatibile con gli imperativi dell’emozione.
Per esempio il click di un mouse, d’un livello d’astrazione molto elevato, è un processo ormai classico per effettuare un’azione, ma che resta molto lontano da un’interazione umana naturale. Di contro, se si considera il tocco del dito su una tavoletta, il livello d’astrazione diminuisce notevolmente.
Forse siamo allora più disposti a creare un legame emozionale con un’opera interattiva se si arriva a ridurre questo famoso livello d’astrazione? Grazie alle interfacce che ci aspettano in un prossimo futuro ci saranno in questo senso grandi evoluzioni.
Ma l’interattività offre anche degli esaltatori d’emozione specifici
In un’esperienza interattiva la storia non segue sempre lo schema classico di inizio-mezzo-fine con crisi-climax-scioglimento. In questo caso i narratori di storie non lineari hanno dovuto sviluppare altri modi di suscitare delle emozioni nel pubblico.
L’incarnazione
Particolarmente frequente nei videogames (e i giochi in generale) ma anche in numerosi documentari e fiction interattive, la proposizione di prendere il controllo di un personaggio permette di facilitare la presa di coscienza dei problemi.
L’obiettivo è di forzare l’empatia grazie alla narrazione in prima o seconda persona. Il pubblico si vede affidata la responsabilità di realizzare gli obiettivi di un personaggio (che non necessariamente gli somiglia).
Così nell’esperienza di Jeu d’Influences /, noi incarniamo il capo di un’azienda che deve gestire una grave crisi di comunicazione. Difficile dire che questo personaggio ci somiglia o che ne apprezziamo alcuni comportamenti. Eppure noi lottiamo e riflettiamo per aiutarlo nel suo cammino.Numerosi altri progetti come Jour de Vote, dans la peau d’un député o The Refugee Challenge del Guardian hanno utilizzato questo processo.
Ma non è sempre un successo in quanto perché l’utilizzatore si senta implicato bisogna creare una strategia per tenerlo sotto tensione. Il pubblico deve comprendere e far sue le motivazioni dei personaggi, avendo una visione chiara degli obbiettivi da raggiungere.
L’implicazione
Chiedere al pubblico d’investire personalmente nel progetto è una scommessa altamente rischiosa. Alcune esperienze collaborative ne hanno pagato il prezzo e non sono m ai riuscite a unire le comunità.
Ma per i progetti che sono riusciti a mobilitare una comunità attiva, la sensazione di soddisfazione provocata nei partecipanti è amplificata.
E’ la strategia adottata da numerosi progetti partecipativi come Anarchy, la Contre-Histoire des Internets o ancora Immigration Nation.
I mezzi impiegati per motivare la comunità a impegnarsi nella co-creazione di un lavoro sono notevolmente superiori rispetto a un’esperienza “classica” . I progettisti possono sviluppare dei sistemi di ricompensa – ad esempio Anarchy presenta una lista dei partecipanti più attivi – o cercare di ridurre al minimo gli attriti che potrebbero rendere il contributo complesso e fastidioso.
Su questa nozione di attrito noteremo per esempio la proposizione del progetto Question Bridge che chiede alla comunità di Neri Americani di offrire delle testimonianze video circa la loro quotidianità o la nozione di razza nella società. Potenzialmente, girare un video e caricarlo su un sito collaborativo può essere un processo che si rimanda all’infinito perché non c’è tempo per farlo. Ma gli sviluppatori hanno creato un’applicazione mobile che permette in due o tre click di fare un video della propria testimonianza e caricarla sul sito.
La personalizzazione
Alcune opere interattive considerano le variabili o i dati personali di ciascuno come una parte integrante dell’esperienza proposta. Personalizzando l’opera può crearsi un legame immediato tra l’utilizzatore e il contenuto che consuma perché trova un riflesso di se stesso e non più solo la visione di un altro.
Citiamo per esempio l’esperienza sociale Take My Lollipop http://www.takethislollipop.com/ che permette – connettendosi con il proprio account facebook – di vedere delle fotografie personali pubblicate sui social network integrati a una storia che promette di traumatizzarvi…
In un altro registro, The Wilderness Downtown, un click interattivo realizzato per il gruppo musicale Arcade Fire, integra all’esperienza della vista di Google Earth il vostro luogo di nascita, illustrando il tutto con musica del gruppo.
La promessa di personalizzazione è un fattore di divertimento e di curiosità per molti e, in più, incita alla condivisione sociale perché ognuno troverà valorizzante avere integrato una parte di sé a un’opera.
L’immersione
Io credo che distrazione ed emozione non camminino (quasi) mai insieme. Come provare un’emozione se non si fa attenzione alla storia che ci viene raccontata?
In questo senso la ricerca dell’immersione, dell’implicazione totale del pubblico nell’universo narrativo, può essere assimilata a una ricerca dell’emozione.
L’immersione può essere coltivata in molti modi inerenti la storia stessa (la qualità della narrazione, la recitazione degli attori, ecc.), la sua forma (qualità della fotografia, sonora, del ritmo di montaggio o della scrittura, ecc.), il suo modo di diffusione (scelta del media, qualità dell’interfaccia, temporalità, ecc.).
In più alcune innovazioni offrono delle nuove possibilità, come i dispositivi di realtà virtuale che impediscono per natura tutte le forme di distrazione. Indossando il casco non vediamo nient’altro, non sentiamo più nient’altro che quel gioco e questo può essere un formidabile esaltatore di emozioni. Ne è la prova questa foto di una donna in lacrime davanti all’esperienza della realtà virtuale di Hunger in L.A. di Nonny de la Peña.
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Autore Benjamin Hoguet
Tradotto da elenabona, in collaborazione con Fabrizio Risi consulente seo freelance
Gli articoli di Benjamin sono tratti da http://www.benhoguet.com/ in cui potrete trovare articoli e risorse dedicati all’interattività e al transmedia.