STORYTELLING: ELEMENTI DEL RACCONTO – IL FLASHBACK

Per ideare e sviluppare uno Storytelling efficace è necessario padroneggiare a fondo le tecniche di scrittura dei prodotti audiovisivi, conoscere la storia del cinema, l’evoluzione del ruolo dello spettatore e molto altro ancora.
Ecco perché ci dedichiamo all’approfondimento di alcuni elementi del racconto e dell’uso che ne viene fatto al cinema, specchio sociologico del mondo contemporaneo.

IL FLASHBACK

Abbiamo il passato dietro di noi e il futuro davanti. Non vediamo l’avvenire, vediamo il passato. E’ curioso, dal momento che non abbiamo gli occhi nella schiena. – Eugène Ionesco

BREVE STORIA DEL FLASHBACK

Con il termine flashback, mutuato dal linguaggio chimico, in campo cinematografico si intende un tipo di analessi in cui si assiste alla rappresentazione audiovisiva di un episodio passato: in altre parole, è una scena o un evento che ha luogo prima del presente della storia e che si inserisce nella progressione degli eventi interrompendola e scardinandola.

Questa pratica non è certo peculiarità del linguaggio cinematografico, ma è propria di tutte le arti narrative: se ne trovano esempi memorabili nel teatro e nella letteratura, a partire dalla tragedia attica.

Ma il cinema si presta in modo particolare a rendere l’impressione di un ritorno indietro nel tempo in quanto il montaggio consente una manipolazione e un’alterazione dei segmenti spazio-temporali sconosciuta nelle altre arti, dal momento che sostituisce allo spazio statico delle arti figurative il movimento. E’ questo il motivo per cui la narrativa moderna attinge per la rappresentazione del tempo proprio dal cinema, come è chiaro dalla lettura dei testi di Proust o Joyce.

Il flashback è solitamente introdotto da dissolvenze incrociate, effetti flou o semplici stacchi, spesso introdotti da uno zoom sul viso o sugli occhi di colui che comincia a ricordare.

Un flashback tipico è quello di Casablanca, in cui Rick Blaine siede nel suo nightclub, immerso nei suoi tristi pensieri dopo aver incontrato nuovamente Ilsa Lund. Quindi dice a Sam: “You played it for her… now, play it for me” e una dissolvenza magicamente porta lo spettatore indietro nella storia di Rick con Ilsa nella Parigi pre-bellica, che si conclude con Rick alla stazione, desolato, mentre legge l’ultima inspiegabile lettera della sua amata, che se ne è andata. Quando il flashback termina, le immagini tornano al presente con una dissolvenza uguale a quella iniziale, ma inversa.

Un altro esempio può essere tratto da Quarto Potere[1]: in questo film, del 1941, Orson Welles usa il bianco della pagina del diario di Tatcher come ponte di collegamento verso una scena invernale dell’infanzia del protagonista: il quaderno si apre e l’inquadratura passa dal bianco della pagina al bianco della neve nella quale Charles giocava con la slitta.

Questa pratica appare fin dall’epoca del muto e molti studiosi ne attribuiscono l’invenzione a D.W. Griffith. Già dal 1914 si può dire che l’uso del flashback era radicato, attuato ai fini di chiarire allo spettatore alcuni particolari della storia.

Dal 1920 in poi si assiste a un’ondata di rinnovamento e il flashback si fa tecnica più complessa, come è chiaro per esempio dalla visione dei film di Jean Vigo, in cui il flashback si allontana sempre più dalla realtà oggettiva e, colorato dai ricordi del mondo emozionale personale e storico, diventa allusivo e frammentario. O dai film tedeschi quali Il gabinetto del Dottor Caligari, in cui l’impossibilità di distinguere il passato realmente accaduto da quello fantasticato è strutturale.

Ma il salto all’indietro nel tempo non fu subito familiare al pubblico e quindi era consuetudine introdurre i flashback su un primo piano del personaggio che ricordava, aggiungendo magari una dissolvenza per marcare il passaggio temporale.

Nel cinema classico hollywoodiano il flashback assolve a una funzione chiarificatrice, ben si adatta quindi la definizione che ne dà Marc Vernet:

Il flashback ha generalmente nel racconto un ruolo descrittivo o esplicativo: esso può, al momento dato, fornire la chiave di un enigma, giustificare il comportamento, il carattere, il ruolo di un personaggio. Esso ha dunque una funzione di supplemento di informazione per lo spettatore o per l’eroe-investigatore[2].

Nella fase a cavallo tra il cinema classico e il cinema moderno

metzDa semplice risorsa tecnica di articolazione del racconto nel periodo del muto e in parte anche nel cinema classico, il flashback diventa cornice strutturante e figura chiave della significazione[3].

Negli anni Quaranta la pratica di inserire flashback all’interno della progressione filmica si fa consistente, a partire da Citizen Kane, in cui Orson Welles investiga la vita del defunto Charles Foster Kane completamente fuori dal tempo presente, attraverso un gioco di accumulo di ricordi di alcuni personaggi, che però non porteranno al raggiungimento della verità e del sapere.

Da qui in poi, l’uso del flashback si fa strutturale e, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, liberati dagli studios i registi indipendenti quali Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma, Stanley Kubrick e Robert Altman, portano un’ondata di innovazione. Giocano con questa tecnica manipolandola, svincolandola dall’ oggettività per proporre sempre più memorie soggettive, deformate dalla visione del personaggio che spesso dà luogo a flash frammentari, versioni inconciliabili con la realtà, resoconti che omettono o distorcono particolari importanti. Si fa quindi necessario l’intervento dello spettatore, che non può rimanere passivo, anzi, deve partecipare attivamente alla creazione del testo della memoria.

Pensiamo anche solo a Rapina a mano armata[4], di Stanley Kubrick, che ha costruito un perfetto meccanismo narrativo incastrando flashback e flashfoward in un continuo andirivieni temporale:

Rapina a mano armata costituisce sotto questo aspetto un caso limite di ridisposizione dei materiali della fabula all’interno del discorso narrativo[5].

L’intreccio del film rende evidente il suo distacco dalla storia; l’architettura filmica manda in pezzi la fabula, la semplice linearità del suo tempo, barattandola con l’altalenante va e vieni illustrato puntualmente dalla voce narrante[6].

I generi cinematografici che lo hanno praticato di più sono il noir (Il terrore corre sul filo di Litvak), meglio ancora se a sfondo psicanalitico (Io ti salverò di Hitchcock). La spiegazione è semplice: il procedimento a flashback evoca il modo di procedere di chi conduce un’indagine e inoltre è propria di questo genere “l’ambiguità, cioè l’adozione di forme dotate di una pluralità di significati[7]”.


IL FLASHBACK OGGI

E’ come se la realtà avesse perso i suoi nessi e si formasse sulle richieste del nostro spirito – Hugo Münsterberg

Sull’onda dello sperimentalismo circa il linguaggio e il tempo cinematografico, oggi la tecnica del flashback viene usata non tanto per chiarire una situazione, per aggiungere informazioni al sapere dello spettatore, quanto per mettere in evidenza il meccanismo della narrazione, per intricare il labirinto di rimandi e moltiplicare l’ambiguità e la relatività con punti di vista distorti, tempi che si accavallano, versioni inconciliabili degli stessi avvenimenti; “da modalità del racconto sembra scivolare progressivamente a nucleo tematico della storia[8]”: non è più un espediente funzionale alla comprensione, bensì una struttura che si mostra, che viene messa in evidenza come marca di enunciazione, come è riscontrabile per esempio ne Le iene[9], di Tarantino, che, sulla scia di Rapina a mano armata, costruisce la sua storia su un groviglio di salti in avanti e in dietro nel tempo a cui è difficile stare dietro e gioca con il regime temporale e con la memoria per stupire lo spettatore e sperimentare nuovi linguaggi[10].

E’ interessante in questo senso analizzare una sequenza del film: quella in cui Freddy, il poliziotto infiltrato chiamato Mister Orange, racconta l’aneddoto del bagno. La sequenza comincia in un esterno, dove un collega di Freddy lo aiuta a prepararsi per lavorare con “le iene” senza farsi smascherare, inventando e ripetendo aneddoti fittizi da raccontare.

Uno stacco ci porta a casa di Freddy che, ripreso in inquadratura fissa, entra ed esce da questa ripetendo la parte; in continuità di sonoro ci troviamo nuovamente in un esterno, con Freddy che racconta al collega l’aneddoto; sempre in continuità di sonoro le immagini ci propongono ora l’interno di un bar, in cui Freddy, Mister Orange, porta avanti il suo racconto, ma ad ascoltarlo adesso sono Edd e Joe (coloro che lo hanno ingaggiato per fare il colpo alla banca). Le parole di Mister Orange vengono a questo punto tranvisualizzate in un flashback che mostra la scena del passato (mai accaduto); si torna quindi alle immagini che avevamo lasciato al bar e sul rallenty che ha come soggetto Joe il sonoro ritorna alla scena iniziale in cui Freddy parla con il collega e così le immagini un momento dopo.

In soli pochi minuti Tarantino è riuscito a sovrapporre cinque segmenti spazio-temporali: il semplice racconto di un aneddoto fittizio è spezzettato in tante tessere di un puzzle al cui interno troviamo anche immagini che sono dichiaratamente finte, un passato solo immaginato e mai vissuto. In questo caso, la coerenza è garantita solamente dal regime sonoro e dal livello semantico, che assumono un ruolo fondamentale per la comprensione del testo.

A proposito di questo gioco che potremmo definire metalinguistico, che il cinema compie nei confronti del tempo, Gianni Canova scrive:

Tematizzando il flashback, il cinema contemporaneo lavora evidentemente sul proprio rapporto con il tempo, indaga sulle modalità di riapparizione del passato, scava nella possibilità di visualizzare i salti, le fratture e i ritorni che frammentano e segmentano l’asse diacronico della narrazione[11].

Un film degli ultimi anni che esemplifica tale tesi è sicuramente Memento, ma anche i film di Abel Ferrara, che indagano sulla memoria visiva di un secolo (The Addiction[12]), di una famiglia (Fratelli[13]), di un individuo (Blackout[14]).

Non è casuale che molti film degli ultimi anni abbiano una struttura circolare, che prendano avvio dalla fine della storia per introdurre la figura del narratore: egli ripercorrerà per noi spettatori le vicende che hanno portato al punto in cui siamo arrivati, in cui siamo entrati nella finzione.

Certo non è un’invenzione di oggi: nessuno può dimenticare il celebre inizio di Viale del tramonto[15] che si apre sull’immagine del cadavere di un uomo che galleggia in una piscina; è l’alba e le auto della polizia e dei giornalisti raggiungono il luogo del delitto. Fuori campo, la voce del morto, Joe Gillis, afferma di voler raccontare la verità prima che i giornali la distorcano: da qui inizia il suo racconto, che terminerà con la stessa immagine del suo corpo in piscina.

Qui il commento-racconto (o il racconto-commento) della voce fuori campo organizza tutta la credibilità del testo, la sua struttura semiotica a senso unico, il suo progetto di accettabilità e, quindi, di comunicazione[16].

Non vogliamo quindi sostenere che il racconto circolare sia un’invenzione del cinema postmoderno, ma certo negli ultimi anni si è fatto un largo uso di questa impalcatura narrativa.

Si veda per esempio l’incipit di American Beauty, le cui prime parole che ascoltiamo dopo un breve prologo sono dette dal protagonista-narratore:

Fra meno di un anno sono morto. Naturalmente, io ancora questo non lo so. E in un certo senso sono già morto.

Sicuramente di impatto questo inizio si inscrive perfettamente nel discorso che stiamo conducendo: un narratore che è personaggio della storia, che si fa portavoce della storia, che instaura da subito un rapporto di “dipendenza” con il suo pubblico, interpellandolo da una dislocazione spaziale e temporale altra rispetto a quella diegetica. Lo vediamo nel presente, ma la sua voce appartiene a un futuro in cui è già cadavere, si fa carico del mandato di raccontare a noi spettatori cos’è successo prima della sua morte, perché si è giunti a questo finale. Percorreremo allora con lui uno spezzato della vita di due famiglie americane, delle loro idiosincrasie e dei loro vissuti che hanno il sapore della tragicommedia.

Numerosi esempi si possono ancora fare: in Chiedimi se sono felice[17] si vede Aldo stramazzare al suolo, mentre la sua voce di narratore ci dice che sta morendo e di qui comincia un racconto in analessi. Come nell’esempio precedente l’inizio ci trae in inganno: non sarà l’amico della ragazza ad ammazzare Lester e Aldo morirà solo nella finzione scenica di uno spettacolo teatrale.

Ne Il miglio verde[18] un anziano signore in un ospizio ricorda il suo passato di guardia penitenziaria nel braccio della morte; in Ragazze interrotte[19] Winona Ryder, che interpreta il ruolo di una ragazza border-line, ci narra la sua esperienza passata nella clinica psichiatrica.

Si pensi ancora ai già citati Fight Club, di David Fincher, e Quei bravi ragazzi, che si apre su una delle ultime scene della storia, con la voce fuori campo del protagonista che dice:

Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster. Per me fare il gangster è sempre stato meglio che fare il Presidente degli Stati Uniti. Quando cominciai a bazzicare alla stazione dei taxi e a fare dei lavoretti dopo la scuola ho sentito che volevo essere dei loro…

E quindi le immagini ci mostreranno la vita di Henry Hill, interpretato da Ray Liotta, da quando era un bambino.

Sono solo alcuni dei tanti esempi che si possono fare, ma ci limitiamo a questi per dedurre che cifra di un certo cinema contemporaneo è la circolarità del tempo: tende a scomparire la progressione temporale, a favore della ripetizione, la narrazione non è più protratta verso un finale teleologico ma si chiude circolarmente su se stessa, mettendo in evidenza più l’atto del narrare che il narrato.

L’uso del flashback nel cinema contemporaneo quindi, lungi dall’essere semplice espediente tecnico per portare avanti una narrazione chiara e lineare, tematizza l’incertezza e l’ambiguità del testo audiovisivo operando sul duplice livello del linguistico e del semantico.

Abbiamo infatti proposto degli esempi di film (American Beauty e Chiedimi se sono felice) in cui il prologo, costituito dal personaggio che, nel presente, attiva il flashback, depista lo spettatore, traendolo in un inganno nel quale verrà avviluppato fino al ribaltamento finale.

Abbiamo anche visto come flashback proposti da narratori deboli (Memento e Fight Club) abbiano bisogno di uno sguardo interpretativo altro, perché la semplice somma delle immagini è ingannevole e gode di una verità vacillante e labile.

Proporremo adesso ancora tre varianti dell’uso del flashback che ci paiono significative nel terreno scomodo ma eccitante dell’incertezza: il racconto costruito sull’accumulo di flashback indotti da punti di vista diversi, il film che prende vita da un personaggio difficilmente identificabile e, infine, il testo che dà vita ai cosiddetti flashback menzogneri.

Per quanto concerne il primo caso, l’esempio più citato è senza dubbio Rashomon[20] che, come noto, narra la storia della morte di un samurai e della violenza subita dalla moglie per mano di un bandito: nel XV secolo un boscaiolo, un bonzo e un servo rievocano il boscaiolo racconta le testimonianze date in tribunale dal bandito e dalla donna, assistiamo poi alla versione data dallo spirito del defunto samurai e infine il boscaiolo dichiara di aver visto la scena e dà la sua versione.

Siamo quindi in presenza di un racconto di racconti, di una storia presentata da quattro punti di vista diversi[21].

Anche Cuore Selvaggio[22], thriller di inseguimento di David Lynch, presenta molti flashback a focalizzazione interna:

A turno, infatti, quasi tutti i personaggi principali “prendono la parola” e completano il racconto “oggettivo” intessuto dal film intervenendo con il loro sapere a saturare zone di dubbio o a completare alcuni centrali snodi narrativi. La tecnica di questi racconti “secondi” è per lo più il flash-back in soggettiva e tali fenomeni analettici si rivelano essenziali alla costruzione della trama del film: senza di essi, lo spettatore non potrebbe mai capire esattamente quali relazioni intercorrono tra i personaggi e quali sono le loro motivazioni all’azione. […] Il loro scorrimento, inoltre, non è sempre lineare: in alcuni casi il ricordo è “interrotto”, in altri emerge con eccessiva frammentarietà: è come se Lynch avesse voluto restituire, per quanto sia possibile farlo al cinema, anche il funzionamento della nostra attività memoriale e la “lotta” che talvolta può opporre un individuo alla sua memoria[23].

Luca Malvasi procede nella sua analisi sostenendo che tale impalcatura è propria di quello che abbiamo definito autore debole: l’assenza di recuperi oggettivi e la dispersione del punto di vista in una molteplicità di focalizzazioni affidate a diversi personaggi rende palese la mancanza di una figura autoriale forte e, di conseguenza, mette in crisi il rapporto dello spettatore con la verità: non esiste una verità granitica e unica, bensì tanti ricordi frammentari di una stessa realtà, che oscilla tra fantasia e verità, che comunque è soggettiva.

Come anticipato, un altro modo di spiazzare lo spettatore e farlo navigare in un terreno incerto di significazione per tutto il film – fino al disvelamento finale – è quello di non chiarire quale sia la fonte del flashback. Prendiamo, a esemplificazione di questo caso, il recente Salvate il soldato Ryan[24], di Steven Spielberg. Come scrive Leonardo Gandini

Il lungo flashback che narra gli eventi ambientati durante la seconda guerra mondiale viene introdotto da uno sguardo. Uno sguardo puro, per così dire autosufficiente, poiché disancorato, in quel momento, da una caratterizzazione psicologica e persino da una definizione del personaggio: al punto che lo spettatore sarà indotto talvolta a chiedersi, nel corso del film, a chi quello sguardo appartiene, nel tentativo di dargli un’identità, un nome, di chiarire un mistero che verrà risolto solo alla fine[25].

Lo sguardo che dà vita al flashback è lo sguardo di un anziano signore che si reca al cimitero con la famiglia; il racconto secondo è incentrato sulla figura del capitano John Miller (interpretato da Tom Hanks), motivo per cui lo spettatore è portato a supporre, nonostante qualche dubbio, che sia lui l’anziano signore che si vede in apertura di film. Questo comporta che non teme per l’incolumità del capitano: se è vero che molti film contemporanei fanno parlare i morti, il protagonista è per lo meno invecchiato e dunque non può morire neanche nella battaglia nel paesino di Ramelle, dove la truppa si è recata per salvare il soldato Ryan. Ma Miller muore. Lo spettatore viene spiazzato, sbalzato via da tanta tranquillità: l’anziano signore è in realtà – si capirà nell’epilogo del film – il soldato Ryan, che va a piangere sulla tomba di colui che gli ha salvato la vita, rischiando e perdendo la sua: il capitano Miller.

IL FLASHBACK MENZOGNERO

Nessuno apprezza ciò che è veramente una falsità (alethos pseudos), cioè una menzogna con l’aspetto di una verità. […] Chi non ha istruzione può rendersene conto e avvertire il desiderio da imparare, ma chi è indottrinato da una “vera bugia” si trova in una condizione peggiore, perché la “vera bugia” comporta una illusione di conoscenza.

Platone, Repubblica

Il flash-back è sempre dotato di un valore di verità certa. Sia che si tratti di una testimonianza o di un semplice ricordo, la parte in flash-back è data come “più vera”, più essenziale che la parte al “presente”. Ciò è particolarmente evidente nei film sulla psicoanalisi in cui il flash-back raffigura l’emergenza inarrestabile della verità.

Questa nozione di verità funziona del resto altrettanto bene in rapporto alla colonna visiva (le immagini del flash-back sono più vere di quelle del “presente” in quanto si ritiene che le prime determinino le seconde) che in rapporto alle parole di un personaggio: le immagini del flash-back sono più vere delle parole perché, grazie ai codici dell’analogia, esse forniscono una più grande impressione di realtà (la cinepresa è in qualche modo più obiettiva del discorso parlato di un personaggio). Ciò è anche dovuto al fatto che il flash-back, per il suo carattere di intervento esteriore nella narrazione, è sentito spesso come un intervento dell’istanza narrante stessa, quasi si trattasse di un commento dell’autore. E mentre un personaggio può nascondere qualcosa a un altro personaggio, l’autore non potrà mentire allo spettatore. Il flash-back acquista in tal caso lo statuto di “referente della finzione”.[26]

Così scriveva nel 1978 Marc Vernet e così venivano considerate le immagini scaturite da un flashback fino agli anni Ottanta: garanti di una verità (funzionale) incontestabile, più vera di qualsiasi parola o immagine proposta dal film.

Prendiamo per esempio la sequenza di apertura di Cantando sotto la pioggia[27]: al Grauman’s Chinese Theater la giornalista Dora Bailey presenta al pubblico Don Lockwood e Lina Lamont, le star del film “The Royal Rascal”, la cui prima è attesa la sera stessa. Dora chiede a Don di raccontare al pubblico la storia della sua carriera (perché è “un’ispirazione per tutti i giovani del mondo”) ed egli comincia, sottolineando il motto della sua vita: “Dignità, sempre dignità”. Mentre ascoltiamo la voce off di Don che racconta il suo passato, le immagini propongono in flashback la vera storia dell’attore, contraddicendo ogni sua parola: mentre Don dice “A questo punto abbiamo [Don e Cosmo, l’amico fidato] aggiunto un rigoroso studio musicale, al Conservatorio di Belle Arti”, le immagini mostrano i due fare uno spettacolino in uno squallido caffè, mentre gli avventori giocano a carte; e così via, per tutta l’intervista.

In questo caso, quindi, la definizione di Vernet calza benissimo: “Le immagini del flash-back sono più vere delle parole […] e mentre un personaggio può nascondere qualcosa a un altro personaggio, l’autore non potrà mentire allo spettatore”.

Un’eccezione che fece clamore fu sicuramente Paura in palcoscenico[28], famoso per il suo flashback menzognero: Jonathan Cooper, in apertura di film, racconta all’amica Eve Gill che deve scappare dalla polizia perché la donna di cui è innamorato, Charlotte Inwood (interpretata da Marlene Dietrich) ha ucciso il marito e lui è stato scoperto mentre era a casa sua a nascondere le tracce. Questo racconto è supportato dalle immagini in flashback, che confermano la versione di Jonathan. Lo spettatore dunque non ha dubbi: il protagonista è innocente perché l’autore non lo smentisce. Nessun indizio segnala allo spettatore che Jonathan è un bugiardo. Ma alla fine del film, si scopre che invece è proprio lui l’assassino e che quindi il flashback era menzognero.

Questo film scatenò polemiche che portarono a giudicare Hitchcock un regista scorretto perché aveva falsificato una procedura tradizionalmente oggettiva.

Vediamo che cosa dice nella sua intervista concessa a François Truffaut:

Hitchcock

A.H.: Come lei sa, ho fatto in questa storia una cosa che non mi sarei dovuto permettere… un flash-back che era una menzogna

F.T.: Gliel’hanno molto rimproverato, anche i critici francesi

A.H.: Nei film, non abbiamo nulla da ridire se un uomo fa un racconto menzognero. D’altra parte accettiamo altrettanto bene che, quando un personaggio racconta una storia passata, questa sia illustrata in flash-back, come se si svolgesse al presente. Allora, perché non potremmo anche raccontare una menzogna in un flash-back?

F.T.: Nel suo film la cosa è più complessa[29]

Orio Menoni illustra bene quale sia la differenza tra il procedimento usato da Kurosawa in Rashômon e quello usato in questo film da Hitchcock:

Rashomon ci presenta una serie di flash back che, se presi individualmente, affermano ciascuno una verità differente, ma che, una volta compresi nell’unità del film, non si ricompongono in un collage di verità e menzogne, bensì concorrono, tutti nello stesso grado, alla generale relativizzazione della verità. Insomma, i flash back di Rashomon negano l’esistenza della verità in un modo che è, nella logica dell’assunto filosofico, eticamente inappuntabile. Al contrario, il flash back di Stage Fright afferma fortemente una verità, la verità della menzogna, con un comportamento che, secondo la morale dell’osservatore medio […] è eticamente inaccettabile. Di nuovo, lo vediamo, si torna all’eterno scontro tra etica e verità[30].

Lo stesso espediente viene utilizzato, meno sapientemente, in anni recenti da Alan Rudolph, nel suo film del 1991 intitolato L’ombra del testimone[31]. Un ispettore di polizia indaga sul caso di un duplice omicidio dopo il ritrovamento dei cadaveri dei mariti di due amiche: uno ucciso a rasoiate, l’altro con un colpo di pistola. Una delle due donne è stata arrestata, l’altra (Demi Moore) viene interrogata dal detective Woods al quale fornisce un racconto (transvisualizzato in flashback) la cui verità, verso la fine del film, pare barcollare, a causa del racconto dell’amica.

Ciò che a Hitchcock assicurò le polemiche di pubblico e critica (per una volta d’accordo!) e la reputazione di regista scorretto, oggi frutta ad alcuni film medi applausi per aver creato prodotti intelligenti.

Non c’è da stupirsi, dal momento che ci troviamo in un’epoca in cui l’atto del raccontare diventa il soggetto del racconto, il come di Chatman assume maggior importanza del cosa, la funzione poetica di Jackobson prevale sulle altre. Spesso oggi siamo di fronte a film che mettono l’accento sulla struttura e sulla creazione del film piuttosto che sulla storia, promuovendo un cinema autoriflessivo che indaga, più o meno abilmente, sulle sue potenzialità, sul suo linguaggio, sul suo passato. Un cinema che non punta a confezionare belle storie, ma a rappresentare belle confezioni, che possano stupire lo spettatore più che commuoverlo, ingannarlo più che aiutarlo a comprendere.

Ed è in questo panorama che nasce un film come The Hole[32], di Nick Hamm, tratto da un racconto di Guy Burt che racconta la storia di quattro studenti che, per fuggire alla noia di una gita scolastica, si chiudono in un tetro rifugio sotterraneo, dal quale solo Liz (interpretata da Thora Birch) uscirà viva. Una psicologa in spider cercherà di capire che cosa è successo nel buco, interrogando per diversi giorni Liz, che darà vita a un lungo flashback sull’esperienza passata. Lo spettatore non ha dunque motivo di dubitare, di credere che Liz (e il regista) lo stia ingannando: non ci sono indizi che la tradiscono e il flashback pare ricoprire la sua tradizionale funzione di fare chiarezza, di indagare la verità nonostante la si voglia rimuovere. Questa è però solo la prima verità che ci viene proposta e in cui lo spettatore crede fino a che, sul finire del primo tempo, viene arrestato Martin, il ragazzo accusato da Liz quale responsabile della loro “reclusione”: egli fornirà, sempre tramite un lungo flashback, un’altra versione dei fatti, certamente più credibile della prima.

Tutto il film è dunque costruito per permettere ai due ragazzi di divenire narratori di flashback divergenti; ma esistono anche esempi in cui il flashback menzognero non si eleva a soggetto del racconto, rimanendo uno dei tanti elementi messi in scena dal film, un espediente per veicolare un contenuto più che se stesso. E’ il caso di Boyz’n the Hood[33], in cui Tre (interpretato da Cuba Gooding jr) racconta al padre in flashback la prima volta che ha fatto l’amore; scopriremo poco dopo, attraverso il dialogo dello stesso Tre con un amico, che l’episodio non ha mai avuto luogo. Ma in questo flashback menzognero un piccolo indizio c’è: la ragazza con cui Tre dice di aver perso la verginità, nel racconto secondo non parla mai con la propria voce, ma con la voce fuori campo di Tre.

Oggi, quindi, la pratica di inserire flashback menzogneri nello scorrere di immagini presenti non è poi così rara e, per tornare alla nostra analisi del film di Bryan Singer, ne I soliti sospetti tutto è costruito utilizzando questo meccanismo ingannevole, la storia stessa pare cucita intorno a questo espediente, vero soggetto del racconto.

A differenza di altri film, però, il finale non risolve nulla: l’unica certezza con cui lo spettatore lascia la sala è quella di essere stato ingannato poiché non assiste ad altre immagini e non ascolta altre parole che danno un’altra versione dei fatti. Se in The Hole Martin confuta la versione di Liz raccontando la storia dal punto di vista del suo sapere, se in L’ombra del testimone le due amiche forniscono due storie diverse ma entrambe dichiarate, ne I soliti sospetti sono morti proprio tutti coloro che potevano concorrere al raggiungimento della verità e, pur scoprendo la vera identità di Verbal/Keyser, nessuno potrà mai dire come siano andate davvero le cose. Il confine tra immaginario e realtà è troppo poco definito e definibile, il punto di vista è ingannevole ma unico, Verbal è l’unico testimone e nessuno ci viene in soccorso, neanche l’autore, per sciogliere l’enigma.

LE BUGIE HANNO LE GAMBE STORTE: L’USO DEL FALSH BACK NE I SOLITI SOSPETTI

Nella sequenza [31] Verbal inizia a raccontare all’agente Kujan la leggenda di Keyser Soze: presto le sue parole saranno accompagnate da immagini in flashback.

Bè, pare che sia turco, c’è chi dice che il padre sia tedesco, nessuno crede che esista davvero, nessuno l’ha mai conosciuto o visto qualcuno che abbia lavorato per lui, ma a sentire Kobayashi chiunque avrebbe potuto lavorare per lui, non lo sapevano, era questo il suo potere.

La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste. Una delle storie che mi hanno raccontato i ragazzi e che io credo è di quando Soze stava in Turchia, c’era un gruppo di ungheresi che volevano formare una banda, avevano capito che per avere il potere non c’è bisogno di fucili o di soldi, né di essere in molti, serviva solo la volontà, di fare quello che gli altri non vogliono fare. Dopo un po’ salirono al potere e prendono di mira Soze, era un pesce piccolo, allora spacciava solo droga, dicono.

Arrivano a casa sua di pomeriggio, vogliono fregargli la roba, trovano la moglie e i figli in casa e decidono di aspettare Soze. Lui arriva a casa sua e trova la moglie violentata e i figli che urlano, gli ungheresi sanno che Soze è un duro e vogliono fargli capire che loro non sono da meno. Gli dicono che vogliono il suo territorio e tutto il suo giro. Soze guarda dritto negli occhi i suoi familiari e fa vedere a quegli uomini di ferro cosa sia una volontà di ferro.

Gli dice che preferisce vedere la sua famiglia morta piuttosto che vivere un altro giorno dopo quanto è successo, lascia libero l’ultimo ungherese, aspetta che la moglie e i figli siano sotto terra, poi va a cercare il resto della banda, uccide i loro figli, uccide le loro mogli, uccide i loro genitori e i loro amici, brucia le case in cui vivono e i negozi in cui lavorano, uccide persino le persone che gli devono dei soldi e come niente sparisce. Un clandestino, nessuno lo ha mai più visto da allora, diventa un mito, una storia del terrore che i criminali raccontano ai figli, se non obbedisci a papà Keyser Soze ti porta via, ma nessuno ci crede veramente

Le immagini che vengono visualizzate hanno uno stile molto diverso da quelle proposte in tutto l’arco del film: viene presumibilmente utilizzato un filtro giallo, per rendere l’atmosfera surreale e le riprese sono fatte in controluce, per rendere evidente l’atto del raccontare ed enfatizzare la storia; inoltre parte della scena è ripresa in ralenti e quindi

Il tempo della narrazione subisce una dilatazione che destruttura la storia e focalizza l’attenzione sugli altrove del racconto, creando una destabilizzazione della percezione in una sorta di effetto allucinazione[34].

Possiamo quindi dire che questo flashback mette in evidenza il suo essere cinematografico, con dichiarate marche di enunciazione e Metz ci ricorda che

Alcune modalità di ripresa […] quando attirano l’attenzione su se stesse, diventano un commento di ciò che è ripreso; esse si distaccano, per quanto poco, dalla storia, per orientare il nostro modo di leggerla[35].

E, nel nostro caso, Singer vuole che il nostro modo di leggerla ci turbi e, allo stesso tempo, ci lasci incerti circa la veridicità della sequenza: se tutti gli altri flashback sono menzogneri ma ci vengono proposti come realtà, questo ha un’atmosfera irreale, è avvolto in un alone a metà tra il sogno e il reale, congelato in una leggenda a cui non si sa se credere o meno, ma che, comunque, fa paura.

Verbal ci racconta questo episodio come se qualcuno l’avesse a sua volta raccontato a lui. Ma noi sappiamo che è da lui che ha avuto origine e che è lui che vuole diffondere questa leggenda, per rinforzare il potere del suo nome, per aumentare il timore nella sua figura.

Il flashback di Verbal ha quindi una funzione che potremmo definire pubblicitaria; è un’auto-celebrazione, la mitizzazione di un Sé già costituitosi in personaggio ma in altre sembianze (come il lupo di Cappuccetto Rosso che si traveste da nonna…).

“Chi è Keyser Soze?” per l’agente Kujan dietro questo nome si cela in realtà Dean Keaton, per Dean Keaton non esiste, per Kobajashi è il mandante, per il mondo è un mito, una leggenda.

Il prodotto-Keyser Soze esiste, prima ancora che come oggetto di un mondo, come referente costruito attraverso un discorso.

Come nella pubblicità, quello che importa non è persuadere, ma ottenere un consenso, rinforzare opinioni[36]; non si punta a far credere, ma a costruire una credenza.

Keyser, e così il flashback di Verbal/Soze, non cerca di convincere il mondo della propria esistenza: per farlo bisognerebbe far leva sulla razionalità dell’agente Kujan, delle persone del mondo (della fiction e della fruizione), dare prove fattuali (quelle su cui si basano detective e psichiatri) chiedere di schierarsi, di credere o non credere. Bisognerebbe fornire un’identità a quest’entità quasi metafisica. E’ proprio da questo che Verbal/Soze scappa, è questa fuga da un’identità il motore di tutto il film. Il programma narrativo è tutto teso a far rimanere questa figura demoniaca nel mistero, nel regno dell’ombra, dell’unheilmich, perturbante più di qualsiasi certezza, inafferrabile perché non si sa neanche se esistente.

“Chi è Keyser Soze?” “un clandestino” – dice Verbal alla fine del flashback – “nessuno lo ha mai più visto da allora, diventa un mito” e diventando un mito, come ci insegna Roland Barthes

Abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze, sopprime ogni dialettica, ogni spinta a risalire, al di là del visibile immediato, organizza un mondo senza contraddizioni perché senza profondità[37].

Ed è chiaro che in un siffatto mondo è più facile esistere come essere a metà tra l’umano e il soprannaturale, tessere tele senza mai rimanerne incastrati, disseminare paura senza essere mai stati visti.

IL CONFINE TRA REALTA’ E IMMAGIN-AZIONE

Che cosa importa la menzogna al cultore della bellezza? Basta che la menzogna sia bella ed eccola diventata per lui la verità, e la sola incontestabile.
Roger Callois

Dov’è andata a finire la realtà? Quando andiamo a vedere un film, sappiamo bene che andremo ad assistere a un racconto di finzione: anche nel caso in cui il film sia tratto da una storia vera, le immagini che ci vengono proposte sono una traduzione estetica e creativa della realtà.

L’immagine bidimensionale, la presenza di attori, i tagli del montaggio, i titoli di testa[1], tutto concorre a ricordarci che stiamo assistendo a uno spettacolo, a una finzione ed è proprio per questo che, ci dice Metz[2], possiamo lasciarci andare e vivere quella storia come se fosse reale.

Oggi però sembra sempre più urgente per alcuni registi mettere in evidenza lo statuto di finzione del loro prodotto, dichiarare che quello che ci viene raccontato è finto, appartiene all’immaginario, che le immagini che vediamo sono cinematografiche e non reali. C’è un’inversione di tendenza per cui se una volta anche la storia più incredibile doveva sembrare verosimile, oggi anche la più verosimile deve mostrare di essere frutto della creazione di un dispositivo e di un’equipe di persone che inventano e rappresentano storie per la fruizione dello spettatore.

In questo panorama si fanno sempre più frequenti l’uso di immagini “pirotecniche” (U turn –Inversione di Marcia[3]), flashback menzogneri (I soliti sospetti), soggettive vertiginose (Strange Days[4]), in film che non propongono storie, ma possibili storie (Sliding Doors[5]), non si manifestano come copie del reale, ma come copie di se stessi.

Il cinema di oggi ragiona su se stesso, sul rapporto con il proprio linguaggio e il proprio passato, più che con la realtà; ed ecco allora i remake (Psycho[6]), i sequel (Hannibal[7]), il citazionismo (Pulp Fiction[8]) di questa stagione che molti chiamano postmoderna.

Inutile dire che siamo molto lontani dal realismo ontologico di Bazin, dall’estetica del pedinamento di Zavattini, dal montaggio invisibile del cinema classico.

Il rapporto fra mondo finzionale del racconto e mondo reale viene drammatizzato, narrativizzato. Si crea una tensione non risolta tra finzione e realtà che produce un regime di indecidibilità tipico delle componenti culturali della società postmoderna: devo credere o non devo credere, devo accettare o non accettare la storia che mi viene raccontata, so che non è vera, mi viene anche detto eppure si continua a raccontarmela[9].

E’ quindi ovvio che il legame ontologico che una volta sussisteva tra immagine e realtà viene scardinato, portato in primo piano per essere negato e molti sono i film che rappresentano questa nuova condizione giocando con la veridicità dell’immagine (come accade ne I soliti sospetti) o addirittura elevandola a soggetto del film. Alcuni registi lavorano infatti

Dentro quel gigantesco artificio in cui pare essere scomparsa – come inghiottita da un gorgo, o cancellata da un clic – quella che un tempo veniva chiamata “realtà”[10].

flashback in matrixUn film come Matrix[11] è esemplare in questo senso: Neo è un hacker che lavora in una ditta di software e, seguendo “il coniglio bianco” tatuato sulla spalla di una ragazza, incontra Trinity, che gli svelerà che quella che lui – e tutti gli esseri umani- stanno vivendo non è la realtà, ma un mondo simulato da un’inteligenza artificiale chiamata Matrix. La verità è che il computer domina ormai il mondo e tiene gli esseri umani imprigionati per succhiare loro energia dala corteccia cerebrale. Solo un gruppo di ribelli, guidati da Morpheus, è riuscito a togliere il velo di Maya e comprendere lo scarto che sussiste tra percezione e realtà e Neo sarà l’eletto per salvare il mondo.

Non è un caso che questo film vinca quatto Oscar: miglior montaggio, migliori effetti visivi, migliori effetti sonori e miglior sonoro; in un minestrone di mitologia classica, cristologia, kung fu, Alice nel paese delle meraviglie e videogiochi, i fratelli Wachowski mettono in crisi lo statuto di realtà delle immagini, raccontando di un mondo verosimile che non esiste se non come copertura di un mondo inverosimile (con uomini ibernati e coltivati in una serra) che è quello reale.

Spesso, se ancora una verità c’è, non è visibile nella realtà, quanto nella manipolazione che si fa della sua immagine; come ci dice Steven Soderbergh in Traffic[12], in cui l’illuminazione realistica trova spazio solo nelle scene in cui non si va oltre l’apparenza, si rimane sulla superficie delle cose: solo attraverso un uso connotativo della luce – il diaframma spalancato, il colore fortemente virato, la sovraesposizione – e quindi un intervento cinematografico si può cercare di capire, di trovare la verità.

Non possiamo più fidarci di ciò che vediamo, non possiamo farlo noi spettatori e non possono farlo i personaggi dei film che andiamo a vedere.

Lo sa bene la società del futuro di Gattaca[13], che distingue gli esseri umani in “validi” (con DNA geneticamente manipolato) dai “non validi” (generati in modo naturale e quindi passibili di malattie, malformazioni, ecc.) e per il riconoscimento non si affida alla carta d’identità, ma a un dispositivo che legge le impronte digitali, perché lo sguardo può ingannare:

E’ uno scenario, quello descritto dal film, in cui le immagini hanno perso ogni potere di certificazione della realtà: nessuno guarda più le fotografie sui documenti, perché ormai si sa che le immagini possono mentire, che lo sguardo si (e ci) inganna. […] Nella sua emblematica metaforicità, proprio un film come Gattaca tematizza con nitida lungimiranza […] la crisi dell’egemonia dello sguardo nella società contemporanea, la perdita del legame ontologico fra immagine e realtà, l’avvento di un paradigma tecnologico e culturale in cui l’immagine filmica reagisce alla consapevolezza del proprio definitivo ingresso in un regime di simulazione lasciando emergere la crisi delle sue forme tradizionali e dei suoi più collaudati dispositivi di rappresentazione del visibile[14].

Viene quindi sottolineato il confine ormai labile tra finzione e realtà, concetti incerti che oltrepassano spesso la linea per fondersi e confondersi, mettersi in gioco, negarsi:

La frattura tra universo finzionale e universo reale viene dunque diegetizzata, raccontata, simulata […] Si determina così una sorta di tensione irrisolta tra finzione e realtà, tra verosimiglianza e simulazione, dove la distinzione fra vero e falso si trasforma in un gioco simulacrale di apparenze, in cui diventa difficile districarsi[15].

A venire a galla con sempre maggior evidenza nel cinema contemporaneo è la consapevolezza dello scarto inevitabile che si è creato fra visione e conoscenza. Una volta che l’immagine è entrata nel regime della simulazione, la perdita ontologica del suo legame con la realtà la rende del tutto inaffidabile e spinge il soggetto scopico a diffidare sempre più spesso dello statuto di verità di ciò che viene captato dagli occhi e dallo sguardo[16].

Traiamo alcune conclusioni: nel cinema contemporaneo si moltiplicano i punti di vista (The Hole), si mostrano anche i dettagli (Seven[17]), si possono rendere sullo schermo soggettive anche di oggetti inanimati (Robin Hood), si possono creare immagini in Computer Graphics, e tuttavia (o meglio: proprio per questo), il moltiplicarsi delle possibilità narrative e dei punti di vista non coincide con un apporto maggiore di conoscenza, con una visione più approfondita della realtà. Al contrario: non si riconosce più ciò che è da ciò che non è, il reale dall’immaginario, non ci si può più fidare di ciò che si vede, la verità diventa chimera irraggiungibile. Viene meno la possibilità di raccontare una storia. Se ne possono raccontare molte, rendendo i film simile all’ipertesto, cioè “repertori del raccontabile, che giocano con le combinazioni e le varianti, moltiplicando le ipotesi narrative[18]”. Ma è diventato sempre più difficile raccontare una storia unica con un inizio e una fine, quando si riesce lo si fa tematizzando la difficoltà di distinguere tra reale e irreale, proponendo come referente il medium stesso, che sostituisce la realtà in tutto e per tutto: “E’ arrivata l’epoca in cui l’immaginario si presenta più veritiero della verità[19]”.

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Autore elenabona, Master in Editing e Scrittura dei Prodotti Audiovisivi, Docente Esterno al Politecnico di Torino per il modulo Corporate Storytelling

[1] Sull’importanza dei titoli di testa nel rapporto tra spettatore e finzione si veda ODIN, R., L’entrata dello spettatore nella finzione, in CUCCU L., SAINATI, A., op. cit., p 263-284

[2] Cfr METZ, Ch., Cinema e psicanalisi, il significante immaginario, Venezia, Marsilio, 1980, in particolare il capitolo “Il film di finzione e il suo spettatore”

[3] U turn –Inversione di Marcia- (U Turn), Oliver Stone, USA, 2000

[4] Strange Days (Strange Days), Kathryn Bigelow, USA, 1995

[5] Sliding Doors (Sliding Doors), Peter Howitt, USA, Gran Bretagna, 19997

[6] Psycho (Psycho) Gus Van Sant, USA 1998

[7] Hannibal (Hannibal), Ridley Scott, USA 2000

[8] Pulp Fiction (Pulp Fiction), Quentin Tarantino, USA 1994

[9] NEGRI, A., Scrittura accesa. Il cinema della postmodernità, in www.fucine.com

[10]CANOVA, G., L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, cit., p. 57

[11] Matrix (The Matrix), Andy e Larry Wachowski, USA, 1999

[12] Traffic (Traffic), Steven Soderbergh, USA, 2000

[13] Gattaca – La porta dell’universo- (Gattaca), Andrew Niccol, USA, 1997

[14] CANOVA, G., L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, cit., p. 2-3

[15] NEGRI, A., op. cit., p. 26

[16] CANOVA, G., L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, cit., p. 38

[17] Seven (Se7en), David Fincher, USA, 1995

[18] BUCCHERI, V., Dal tramonto all’alba. Vecchie ideologie e nuovi media, tra musica e video, in «Segnocinema» n. 94, p. 5

[19] LA POLLA, F., (a cura di), The Body Vanishes, in LA POLLA, F., (a cura di), The Body Vanishes La crisi dell’identità e del soggetto nel cinema americano contemporaneo, cit., p. 12

[1] Quarto potere (Citizen Kane), Orson Welles, USA 1941

[2] VERNET, M., Flashback, in COSTA, A., (a cura di) Attraverso il cinema. Semiologia, lessico, lettura del film, Milano, Longanesi, 1978, p.77

[3] CANOVA, G., L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Milano, Bompiani, 2000, p. 83

[4] Rapina a mano armata (The Killing), Stanley Kubrick, USA, 1955

[5] EUGENI, R., Invito al cinema di Stanley Kubrick, Milano, Mursia, 1995, p. 36

[6] BERTOZZI, M., The Killing, intrecci in città, in Stanley Kubrick, Garage, Torino, Paravia, 1998 seconda edizione?????

[7] COSTA, A., Saper vedere il cinema, Milano, Bompiani, 1985

[8] DE BERNARDIS, F., Flashback, in «Segnocinema» n. 63, p. 94-95

[9] Le iene (Reservoir Dogs), Quentin Tarantino, USA, 1992

[10] A proposito dell’architettura del film, Quentin Tarantino dice: “ Quello che ho fatto è stato applicare alla sceneggiatura la struttura del romanzo, perché ho sempre pensato che, a usarla in modo cinematografico, sarebbe stata estremamente cinematografica, anche se, quando adattano un romanzo per il cinema, la struttura è la prima cosa che eliminano. Quando leggi un libro, lo scrittore non ci pensa due volte a partire nel bel mezzo della storia”. Lo leggiamo in BERNARD, J., Quentin Tarantino, l’uomo e i film, Torino, Lindau, 1996, p. 146

[11] CANOVA, G., L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, cit., p. 84

[12] The Addiction (The Addiction), Abel Ferrara, USA, 1994

[13] Fratelli (The Funeral), Abel Ferrara, USA, 1996

[14] Blackout (Blackout), Abel Ferrara, USA, 1997

[15] Viale del tramonto (Sunset Boulevard), Billy Wilder, USA, 1950

[16] BETTETINI, G., Tempo del senso. La logica temporale dei testi audiovisivi, Milano, Bompiani, 1979

[17] Chiedimi se sono felice, Aldo, Giovanni, Giacomo e Massimo Venier, Italia 2000

[18] Il miglio verde (The Green Mile), Frank Darabont, USA, 1999

[19] Ragazze interrotte (Girl Interrupted), James Mangold, USA, 1999

[20] Rashômon (Rashômon), Akira Kurosawa, Giappone 1950

[21] Per un approfondimento sul punto di vista in Rashômon, si veda JOST, F., Narrazione(i) : al di qua e al di là, in CUCCU L., SAINATI, A., Il discorso del film, Napoli, ESI, 1988

[22] Cuore Selvaggio (Wild at Heart) Usa 1990, David Lynch

[23] MALVASI, L., op. cit.

[24] Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan), USA 1998, Steven Spielberg

[25] GANDINI, L., Dissoluzione e metamorfosi del personaggio hollywoodiano, in LA POLLA, F., (a cura di), The Body Vanishes. La crisi dell’identità e del soggetto nel cinema americano contemporaneo, Torino, Lindau, 2000

[26] VERNET, M., op. cit., p. 78

[27] Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain), Gene Kelly e Stanley Donen, USA 1952

[28] Paura in palcoscenico (Stage Fright), Alfred Hitchcock, USA, 1950

[29] TRUFFAUT, F, Il cinema secondo Hitchcock, Milano, EST, 1997, p. 159

[30] MENONI, O., Per una cin(e-)tica riflessiva. La verità dell’immagine nell’età del paradosso, in «Segnocinema» n. 94, p. 15-16

[31] L’ombra del testimone (Mortal Thoughts), Alan Rudolph, USA 1991

[32] The Hole (The Hole), Nick Hamm, GB 2000

[33] Boyz’n the Hood (Boyz’n the Hood), John Singleton, Usa 1991

[34] NEGRI, A., op. cit.

[35] METZ, Ch., L’enunciazione impersonale o il luogo del film, cit., p. 194

[36] Non è un caso che in latino il vocabolo opinio (credenza, pregiudizio) sia contrapposto a veritas (verità)

[37] BARTHES, R., Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974

Questo articolo è stato scritto dalla dott.ssa Elena Bona, con collaborazione con il consulente seo freelance Fabrizio Risi